DIRIGERE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS - prof.ssa Barozzi Daniela - LA NOSTRA DIRIGENTE
Non è facile, nel primo anno del proprio
mandato, trovarsi a dirigere una scuola a “distanza”: solo un anno fa, quando
ancora studiavo sui libri cosa deve fare un Dirigente scolastico, mai avrei
potuto immaginare di ritrovarmi a gestire una situazione di emergenza del tutto
nuova, inaspettata, complessa, che non trova risposte su nessun manuale e per
la cui gestione a poco o nulla servono le nozioni imparate con tanta fatica.
Perché adesso ciò che serve è altro.
Occorre motivare i docenti e tenere alto il
morale per fare capire che la didattica a distanza, per quanto limitata, è
l’unico e fondamentale strumento che abbiamo al momento per raggiungere i
nostri ragazzi e far sì che la scuola
rimanga la loro stella polare.
Occorre determinazione per organizzare la
vita della scuola che deve nonostante tutto andare avanti, con riunioni,
incontri, circolari, mail, telefonate.
Occorre tanta pazienza per rispondere alle
mille domande quotidiane di docenti, personale ATA e genitori; occorre darsi da fare perché si
fatica a trovare tutto, dai disinfettanti alle mascherine, dai computer ai
tablet.
E quando arrivo alla sera, stanca e a volte
demoralizzata, spesso mi tornano alla mente ricordi di un passato lontano. Un
passato che ha segnato profondamente la mia vita e ha fatto di me sicuramente
una persona migliore.
A 26 anni, appena sposata, ho lasciato il mio paese e sono partita per
l’Africa dove sono rimasta per due anni.
Sono partita con l’entusiasmo e
l’incoscienza che solo in gioventù si possono avere: sognavo di poter cambiare
il mondo o, almeno, di poter dare il mio contributo per renderlo migliore.
Il giorno in cui siamo arrivati a Merti,
villaggio situato nel nord del Kenya in una zona semidesertica poco distante
dalla Somalia, nell’aria si vedeva ancora il fumo nero di un grande incendio.
Predoni somali, nemici della popolazione Borana lì residente, avevano
incendiato alcune capanne uccidendo senza pietà donne e bambini per rubare
pochi capi di bestiame.
Abbiamo quindi capito subito che la nostra
non sarebbe stata un’esperienza né facile né idilliaca.
Potrei scrivere un libro per tutte le
avventure vissute, alcune drammatiche, altre divertenti ma tutte ugualmente
cariche di tanta umanità.
Le donne con cui lavoravo per cercare di
creare dei gruppi di mutuo aiuto mi chiamavano “adijole” che significa “mamma
di tutti i bambini”, perché li prendevo sempre in braccio e me li coccolavo per
quanto erano belli.
Ho visto purtroppo morire tanti di loro per
malattie per noi banali perché a Merti l’ospedale non c’era, io stessa ho avuto
il tifo e una forma lieve di tubercolosi, trovandomi a sperimentare questa
assenza di sanità.
A Merti non c’era nulla, né un negozio
vero, né la luce elettrica, non esistevano Internet e cellulari. Ed anche
allora, un po' come adesso in questi giorni di reclusione, abbiamo riscoperto
la bellezza delle relazioni umane così come quella del silenzio. Abbiamo
imparato a dare valore alle piccole cose: che bello un mazzo di carte per
passare le serate senza tv, più prezioso dell’oro il vasetto di Nutella
arrivato dall’Italia, che salti facevamo dalla sedia quando suonava il telefono
e dall’altra parte della cornetta la voce della centralinista gracchiava che
c’era una chiamata dall’International e tramite un ponte radio potevamo sentire
la voce dei nostri genitori o dei nostri
amici.
Che esperienza mistica osservare il cielo
stellato di Merti: il buio assoluto creato dall’ assenza di elettricità ti
immergeva letteralmente nell’Universo, in uno spettacolo indescrivibile…
Abbiamo imparato a fare a meno di tante
cose, a tagliarci i capelli da soli, a curarci da soli; abbiamo imparato a
relazionarci con persone culturalmente tanto diverse da noi e abbiamo scoperto
quanto sia bello poter far sorridere un bambino.
Ho scoperto anche che, purtroppo, non era
facile cambiare il mondo come pensavo e
ho provato la profonda delusione dell’impotenza quando non sono riuscita ad
impedire l’inevitabile; quando i miei bimbi morivano per una diarrea dovuta
alla mancanza di acqua potabile o semplicemente per fame.
Ecco
allora che alla sera, quando ripenso a tutto questo, mi dico che anche le
difficoltà di adesso passeranno , che se sono sopravvissuta all’Africa
sopravviverò anche ora e, come allora, ne uscirò più forte, più saggia, più
consapevole.
Daniela Barozzi