Il Tuo Incubo Non E' Terminato

 Aprii gli occhi all’improvviso, svegliato, nel cuore della notte, dalle grida del mio vicino di stanza. Ci ero abituato, ma quella sera mi ero addormentato più pesantemente e svegliarmi così bruscamente mi aveva turbato. Vivevo all’interno dell’OPIP (Ospedale Psichiatrico per Individui Paranormali) da ormai 10 anni e nulla mi sorprendeva più, anche perché io stesso ero rinchiuso lì come “paziente”. Ero stato sistemato nell’ala per “Pazienti Psichiatrici Gravi” e la mia stanza era pressoché una prigione: le pareti erano spoglie di qualsiasi oggetto, ricoperte di muffa e con ragnatele in tutti gli angoli. Il pavimento era segnato da graffi di unghie affilate che dovevano essere appartenute ai vecchi occupanti di quella che adesso era la mia stanza. L’unico oggetto che era presente nella camera era la sedia su cui stavo inchiodato dalla mattina alla sera: era una vecchia sedia da dentista, di quelle che terrorizzano i bambini, con il tessuto strappato e graffiato in vari punti, che cigolava in modo sinistro ad ogni minimo movimento. Gli elementi che la rendevano unica e mostruosa erano, però, i bracciali contenitivi di metallo che riflettevano una luce fredda e agghiacciante. Gli infermieri della struttura li utilizzavano per bloccarmi i polsi e le caviglie, per assicurarsi che non scappassi e che non mi ferissi… Gli unici momenti di libertà che avevo erano le fasce orarie dove tutti i pazienti venivano “liberati dalle loro gabbie” e potevano vagare come anime in pena per i corridoi bui e maleodoranti con una squadra di infermieri alle calcagna sempre pronta ad intervenire in caso di “eccessi di emozioni”, così chiamavano loro i momenti in cui si cercava di uccidersi a vicenda, di uccidere qualche infermiere o, addirittura, di uccidere se stessi. Guardando negli occhi vuoti dei miei compagni di sventura, mi vedevo riflesso, pallido, magro e pazzo. Ricordavo come era la mia vita prima di quel terribile malinteso che mi aveva portato qui. Io, effettivamente, non ero né pazzo, né malato, anche se nelle condizioni in cui vivevo qui potevo sembrarlo: era successo tutto dieci anni prima, quando fui tradito e, di conseguenza, condannato alla reclusione in quell’inferno. Da un po’ di tempo mi dedicavo, da diligente scienziato qual ero, allo studio dei fenomeni paranormali. Li studiavo su altre persone, pur sapendo che io ero il protagonista di questi studi, visto che avevo i poteri della telecinesi, oltre alla capacità di leggere nel pensiero e comunicare a distanza. Una sera ero nel mio studio con uno dei miei collaboratori più fidati quando la polizia entrò e, accusandomi di essere pazzo e gravemente malato, mi portò via davanti agli occhi increduli di mia moglie e mio figlio. 

Dal giorno in cui ero stato rinchiuso nell’ospedale avevo iniziato a provare un grandissimo sentimento di rabbia e una voglia di riscatto e di vendetta nei confronti di tutti quelli che torturavano me e quelli che condividevano la mia stessa sorte. Mi scervellavo ogni minuto di ogni giorno cercando il modo di vendicarmi. Mi serviva un seguace, qualcuno che mi desse ascolto ciecamente, senza pensare alla mia situazione e che non fosse a conoscenza dei miei poteri, qualcuno a cui potessi manipolare facilmente la mente… e chi meglio di un bambino? Feci appello a tutti i ricordi della mia vita e, dopo molto tempo passato a rimuginare, trovai chi faceva al caso mio: la figlia del mio collaboratore, che credevo così fedele e che, invece, aveva fatto la spia, tradendomi e condannandomi così a quella infernale reclusione. Poco tempo prima, infatti, avevamo avuto una discussione piuttosto animata sul fatto che io, facendo questi studi sui miei poteri utilizzando il suo corpo, lo stessi stregando, facendogli sentire voci e avere visioni e pensieri inquietanti. Dopo quel litigio, se ne andò dicendomi che me ne sarei pentito, ma poi, vedendo che era tornato come prima e che veniva ancora agli appuntamenti nel mio studio, avevo rimosso ogni minimo presentimento… Io mi ero pentito, ma adesso toccava a lui… Decisi di riprendere ad esercitare, già da quella sera, i miei poteri che erano stati così a lungo rinchiusi dentro al mio corpo: avrei cercato di comunicare con la bambina durante la notte, quando la sua mente sarebbe stata ancora più manipolabile. Erano le cinque del pomeriggio, avevo tutto il tempo di organizzare un piano preciso e infallibile. 

Appena ebbi sentito che la mano del mio aguzzino, l’infermiere che si occupava di me, girava la chiave nella toppa della porta e, andandosene, la faceva tintinnare nella sua tasca insieme alle altre innumerevoli chiavi, credendo così di riuscire a fermarmi, diedi inizio alla “magia”. I bracciali di metallo iniziavano a darmi fastidio, ma a me bastavano il cervello e i miei poteri: per prima cosa dovevo localizzare Mary, la prescelta; in pochi minuti riuscii ad individuarla. Era nel suo letto, abbracciata alle coperte e al suo piccolo pupazzo che teneva da quando era appena nata e che ora figurava più come un coniglio zombie che come un coniglietto di pezza: gli occhi, bottoni per metà scuciti, pendevano in maniera inquietante dal suo musetto, il naso era stato strappato e al suo posto spuntava un piccolo batuffolo di cotone, parte dell’imbottitura. Il colore del pelo non era più rosa acceso, ma era diventato grigio sporco e le orecchie, con il passare del tempo, si erano afflosciate sugli occhi, molli e “senza vita”. Mi misi in contatto con la sua mente e iniziai a chiamarla dolcemente: “Mary… Mary…”. Scandivo ogni lettera del suo nome e parlavo con una lentezza suadente. Deconcentrandomi per pochi secondi, mi resi conto che delle grosse gocce di sudore mi scorrevano su tutto il corpo, era da molto che non allenavo i miei poteri e la fatica si faceva sentire… ma dovevo andare avanti ad ogni costo se volevo porre fine all’incubo in cui stavo vivendo. Persi il contatto ma lo recuperai immediatamente e, deciso più che mai ad arrivare in fondo, la chiamai sempre lentamente e dolcemente, ma in modo più deciso… funzionò. Mary era in uno stato di dormiveglia, ma i suoi occhi erano aperti e in essi cominciava a farsi strada una luce rosso fuoco. Iniziai a parlarle: “Ciao Mary, io sono la tua guida.” Feci una pausa per sentire la risposta di Mary e lei disse: “Padrone, sono al tuo servizio”. La scena era elettrizzante per me; ripresi: “Mary, dovrai compiere per me una missione speciale: dovrai vendicarmi. Ti darò dei poteri con i quali potrai manipolare le menti delle persone, come quelli che sto usando io in questo momento, ma non dovrai abusarne, altrimenti ne verrai sopraffatta e sarai destinata a vivere tra le fiamme dell’inferno per l’eternità, non sarai né viva, né morta”. “Certo, padrone”, fu la sua mite risposta. “Ora ascoltami attentamente: il tuo compito da adesso in poi sarà quello di controllare la mente delle persone che io ti indicherò e costringerle a tagliarsi la lingua, così da non potersi mai più esprimere. Dovrai perseguitarli ed essere il loro peggiore incubo”. “D’accordo padrone, sono pronta”. Mary era come uno spirito, immobile, con gli occhi rossi e profondi fissi nel vuoto. Le trasmisi il potere di controllare le menti degli altri e lei partì: all’apparenza era una normale bambina ed era proprio questo che la rendeva un’arma subdola ed efficace. Nei mesi che seguirono l’ospedale fu una vera trappola per i miei aguzzini, gli infermieri, che vennero raggiunti dal potere seducente della piccola Mary, che li portò alla devastazione più totale; fu una gabbia per tutti quelli che erano già in quell’incubo e fu un paradiso per noi, che vedemmo le persone che più odiavamo punite. 

Dopo un anno, liberai Mary dall’ipnosi pensando di poterla prendere a vivere con me, ma quando lei si rese conto di ciò che aveva fatto, anche a suo padre, che era stato punito nello stesso modo, non sopportò il dolore e il senso di colpa e, una mattina, si gettò dalla finestra della camera che fu di suo padre, lasciando un biglietto, indirizzato proprio a me: “Per tutto il dolore che ho provocato, qualcuno pagherà… il TUO incubo non è terminato…”.


                                                                                                                   Emma Sofia Vaccari


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