Che giorno è oggi? - Ludovica Di Montefiano

“Quindi? Signore, riesce a sentirmi?”
Una vocina leggermente acuta mi risvegliò dalla mia trance. Ripresi conoscenza di ciò che mi circondava: la scomodità del  sedile troppo poco spazioso per la mia stazza, la fatica a respirare in un ambiente decisamente troppo piccolo per la numerosa quantità di persone e il leggero ma persistente fastidio del rumore del veicolo tornarono alla mia mente come un flusso di pensieri sgradevoli di cui ci piacerebbe sbarazzarcene. “Che giorno è oggi?” il tono insistente di cui percepivo una punta di irritazione per la mancata risposta mi fece abbassare lo sguardo sulla fonte del suono. La bambina mi guardò di nuovo con la fronte aggrottata e gli occhi leggermente socchiusi, come se fosse in sovrappensiero e dubitasse della mia capacità uditiva, o della mia comprensione alla domanda. Non feci in tempo a pensare che le parole mi uscirono dalla bocca con estrema ma disorientante facilità: “Non me l’aveva già chiesto, signorina? Oggi è il 12 luglio del 1996”. Mi stupii per la mia risposta già pronta, quasi meccanica, conoscendo molto bene la mia scarsa memoria per tutto quello che non riguardava la mia professione. La bambina mi guardò compiaciuta e si rilassò sul sedile adiacente al mio, dove la adocchiai con una ingiustificata curiosità. Nonostante fosse la prima volta che io l’incontrassi, il suo volto era scolpito nella mia mente. Possedeva dei lineamenti talmente familiari che il solo pensiero mi metteva in soggezione, mi portava una inusuale inquietudine. "Perché mi chiedi sempre che giorno è oggi?”  non potei fare a meno di domandarle. Con un saltello scese dal suo posto, e iniziò ad incamminarsi verso le porte dell’autobus. Solo in quel momento mi accorsi che ormai eravamo arrivati alla sua fermata. Prima di scendere si voltò a guardarmi, “Devo controllare che tutto proceda correttamente”. La guardai uscire e incamminarsi verso l’edificio bianco, impotente e succube di quello che avrebbe dovuto  accadermi. La giornata si svolse come previsto: arrivai in ospedale leggermente in ritardo per colpa del traffico, visitai i pazienti e  prescrissi nuovamente le varie cure, per poi tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro. Alle sette di sera mi divertivo a cercare di indovinare in che modo sarei morto. Mi stupivo sempre di più ogni volta che mi capitava una modalità improponibile e del tutto inaspettata. Rimasi piuttosto deluso quando poco dopo mi ritrovai schiacciato da un furgone sulle strisce pedonali: tra tutti i metodi che si potevano scegliere, questo era di certo il più noioso. Rimasi immobile con lo sguardo rivolto verso il cielo: mi infastidiva guardarlo, era troppo limpido per essere sera, e lo sentivo responsabile per la mia prigionia in questo spazio chiuso e opprimente. Il dolore sarebbe passato in fretta, bastava aspettare qualche minuto. Gli ultimi istanti erano sempre i più difficili, perché era il momento in cui mi rendevo conto pienamente della mia situazione e mi pentivo di quello che stavo facendo e che avevo fatto, perchè cercavo invano una qualsiasi via di fuga a questo 12 luglio del 1996 che continuava a ripetersi conducendo ogni volta allo stesso esito finale, perchè mi chiedevo in che modo sarei stato ucciso il giorno dopo, o lo stesso giorno, perché capivo che per me non esisteva un passato o un futuro, ma solo il presente, perchè mi chiedevo quando tutto questo avrebbe avuto fine, o SE avrebbe avuto fine, perché non sono ancora riuscito a capire chi è la bambina dell’autobus, perchè… 

“Quindi signore, riesce a sentirmi?”

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