Ancora una volta - Riccardo Mantovani
Forse questo è l’ultimo mercoledì per pubblicare. Per quanto si sappia, e gli articoli sian stati sempre firmati a mio nome, quello che avete letto era uno spettro di me. Io, Riccardo, è la prima volta che parlo. Sudo.
Sono il classico ragazzo dei film. Quello vestito di nero. Quello strano. O almeno, l’etichetta della bottiglia in cui mi hanno chiuso come miniatura, recita così. Va bene. Che belle queste tartarughe.
Mentre camminavo, mi sono reso conto che manca davvero poco. Tutto ciò che era saldo, anche le cose dolorose, spariranno. Ricordi. E non so nemmeno se questo blog rimarrà. La mia vita è cambiata da quando ci scrivo. Il caldo.
Sa prof, io qua ci trovai l’amore, e pure la sua fine. Basta attenzione ai testi che le ho mandato, per vederlo. È una sensazione strana. Malinconica. Come a lasciar i personaggi di una serie tv. Ti hanno accompagnato quei pomeriggi. Di noia. Tristezza. Pioggia. Finisce l’ultima stagione. Non puoi ricominciarla, sai già come va. Ma lo faresti, all’infinito, se solo potessi dimenticare le emozioni. Merda, mi sanguina il naso.
Da qui sono diventato qualcosa. Uomo? Sono cresciuto. E mentre sporco lo schermo di rossastro muco, capisco. Non abbastanza. Sa prof? Ho scritto un libro. Ho scritto tanti libri. Molti uguali. Ma l’ultimo è strano. Fa piangere. Perché non parla d’amore. Che stanchezza. Ho dimenticato le emozioni. Ho fame. Prendo una banana.
Io non so se altri ragazzi e ragazze troveranno coraggio per pubblicare. Io non so niente del futuro di questo magico e tossico luogo. Questa stanza bianca di urla. Però ci spero. Alla fine, ho qualcosa. Si, da raccontare, colle lacrime agli occhi. Non siamo mai pronti a spezzare i nostri paradigmi, a lasciarci lambire dal nulla dell’orizzonte, solo perché non è più tempo per mettere a posto le cose, è solo conclusosi, e non hai più possibilità; ciò che potevi dire l’hai detto, che poi sia tutto, non importa. Io ci ho provato, a rimettere assieme i pezzi. A felicitare. Ma suona ancora bestemmia ai miei timpani. Mi scaccolo, grattandomi l’ippocampo.
Sono seduto su una lurida e marcia panca del parco mentre, ancora una volta, mi promuovo. A scrittore. Non so che dire. Mi vien solo da piangere. Perché mi ricordo quando alla fine ero incosciente. E mi manca. Questa domenica, tutti i ricordi fluiscono. Imperterriti. Valchirie all’assalto del mio pianto. E’ memorabile, la calura all’ombra del pioppo. Rumori sommessi rovinano lo sfondo. Era novembre. Mi bloccai. Ora continuo. Recito, che la menzogna è necessaria. Mantenete vivo questo baluardo. Ve lo chiedo come studente e coetaneo. Fatemi questo favore. Anche se ferisce, dite “ancora una volta” e mettete qualcosa. Senza vergogna. Posso voltarmi così: nulla, di ciò che ho detto, verrà perso. Mesto.
Una settimana ed inizierà il finale della mia storia. Dopo verrà ad aprirsi un nuovo testo. Un nuovo file. Ed è giunto il momento di chiudere anche qua. Per l’ultima volta. Mi sono innamorato, ho sofferto, ho scoperto me stesso, sono diventato adulto, ho promosso ideali, mi sono battuto per essi, a mio modo mi sono schierato, e seppur nessuno l’abbia notato, sono sopravvissuto di mercoledì in mercoledì, per pubblicare. Ancora una volta.
Mentre i raggi mattutini e afosi mi sciolgono le membra polmonari, mi sento in pace con la mia negatività. Siamo un tutt’uno. Fusi. È un testo felice questo. Le zanzare ronzano attorno ai miei avambracci. Le mosche mi si posano nei capelli. Il fango biascica al di sotto delle suole. La sigaretta ascende alle mie labbra rintoccanti della tosse. L’estate è qua, e con lei la fine d’un inizio. Ancora una volta. Ma questa, per davvero. Mi alzo. Mi infilo in tasca il telefono sporco. Ricomincio a camminare, sospirando. Devo studiare. Non ho tempo per le smancerie. Prendi l’accendino e fuma. Sorridi. Dai. Ancora una volta.
Sono il classico ragazzo dei film. Quello vestito di nero. Quello strano. O almeno, l’etichetta della bottiglia in cui mi hanno chiuso come miniatura, recita così. Va bene. Che belle queste tartarughe.
Mentre camminavo, mi sono reso conto che manca davvero poco. Tutto ciò che era saldo, anche le cose dolorose, spariranno. Ricordi. E non so nemmeno se questo blog rimarrà. La mia vita è cambiata da quando ci scrivo. Il caldo.
Sa prof, io qua ci trovai l’amore, e pure la sua fine. Basta attenzione ai testi che le ho mandato, per vederlo. È una sensazione strana. Malinconica. Come a lasciar i personaggi di una serie tv. Ti hanno accompagnato quei pomeriggi. Di noia. Tristezza. Pioggia. Finisce l’ultima stagione. Non puoi ricominciarla, sai già come va. Ma lo faresti, all’infinito, se solo potessi dimenticare le emozioni. Merda, mi sanguina il naso.
Da qui sono diventato qualcosa. Uomo? Sono cresciuto. E mentre sporco lo schermo di rossastro muco, capisco. Non abbastanza. Sa prof? Ho scritto un libro. Ho scritto tanti libri. Molti uguali. Ma l’ultimo è strano. Fa piangere. Perché non parla d’amore. Che stanchezza. Ho dimenticato le emozioni. Ho fame. Prendo una banana.
Io non so se altri ragazzi e ragazze troveranno coraggio per pubblicare. Io non so niente del futuro di questo magico e tossico luogo. Questa stanza bianca di urla. Però ci spero. Alla fine, ho qualcosa. Si, da raccontare, colle lacrime agli occhi. Non siamo mai pronti a spezzare i nostri paradigmi, a lasciarci lambire dal nulla dell’orizzonte, solo perché non è più tempo per mettere a posto le cose, è solo conclusosi, e non hai più possibilità; ciò che potevi dire l’hai detto, che poi sia tutto, non importa. Io ci ho provato, a rimettere assieme i pezzi. A felicitare. Ma suona ancora bestemmia ai miei timpani. Mi scaccolo, grattandomi l’ippocampo.
Sono seduto su una lurida e marcia panca del parco mentre, ancora una volta, mi promuovo. A scrittore. Non so che dire. Mi vien solo da piangere. Perché mi ricordo quando alla fine ero incosciente. E mi manca. Questa domenica, tutti i ricordi fluiscono. Imperterriti. Valchirie all’assalto del mio pianto. E’ memorabile, la calura all’ombra del pioppo. Rumori sommessi rovinano lo sfondo. Era novembre. Mi bloccai. Ora continuo. Recito, che la menzogna è necessaria. Mantenete vivo questo baluardo. Ve lo chiedo come studente e coetaneo. Fatemi questo favore. Anche se ferisce, dite “ancora una volta” e mettete qualcosa. Senza vergogna. Posso voltarmi così: nulla, di ciò che ho detto, verrà perso. Mesto.
Una settimana ed inizierà il finale della mia storia. Dopo verrà ad aprirsi un nuovo testo. Un nuovo file. Ed è giunto il momento di chiudere anche qua. Per l’ultima volta. Mi sono innamorato, ho sofferto, ho scoperto me stesso, sono diventato adulto, ho promosso ideali, mi sono battuto per essi, a mio modo mi sono schierato, e seppur nessuno l’abbia notato, sono sopravvissuto di mercoledì in mercoledì, per pubblicare. Ancora una volta.
Mentre i raggi mattutini e afosi mi sciolgono le membra polmonari, mi sento in pace con la mia negatività. Siamo un tutt’uno. Fusi. È un testo felice questo. Le zanzare ronzano attorno ai miei avambracci. Le mosche mi si posano nei capelli. Il fango biascica al di sotto delle suole. La sigaretta ascende alle mie labbra rintoccanti della tosse. L’estate è qua, e con lei la fine d’un inizio. Ancora una volta. Ma questa, per davvero. Mi alzo. Mi infilo in tasca il telefono sporco. Ricomincio a camminare, sospirando. Devo studiare. Non ho tempo per le smancerie. Prendi l’accendino e fuma. Sorridi. Dai. Ancora una volta.