Epistola spasmodica - Riccardo Mantovani

Mercoledì 9/2/...

Oggi ti scrivo questa lettera. Ci siamo appena lasciati per un’altra giornata, e non so perché mi senta

così pesante. Non penso sia qualcosa dovuto ai nostri recenti trascorsi: l’amore tra ragazzi è qualcosa

che viaggia oltre la pura riflessione filosofico-letteraria romantica. Forse il fatto di dover star “lontani”,

rompendo un po’ la routine “idilliaca” che c’eravamo creati, mi spaventa - ma probabilmente, è questo

che lo rende necessario -. E’ fin troppo semplice abbandonarsi, a questa età; ed è ciò che più mi infesta.

Ciononostante, non è questo il punto di tale “epistola spasmodica” - scritta per di più, sotto la luce

ambrata di un sole falsamente primaverile, mentre attendo di iniziare la mia lezione di matematica -. Il

centro del mio sproloquio è il piccolo intreccio di battute sulla vecchiaia, che ci siamo scambiati sotto

casa tua. Dissi che tu per prima non avresti mai smesso di camminare - di me, è stupido dirlo: sosto sul

blog della scuola dapprima con un racconto su una pensione al mare in cui muoio a 50 anni; e a meno

che non mi sfasci prima, che “Dio” non voglia, ne ho ancora di metri da percorrere -, ed è ironico come

proprio 5 minuti dopo, mi sia ritrovato a dover aiutare un anziano caduto, a rialzarsi. L’evento è stato

molto strano, e per un po’ sono rimasto disorientato.

Lasciando il nostro anfratto casalingo affacciato sulla strada, m’ero diretto con non molta enfasi verso

casa del mio prof di recupero. Munito di sigaretta in bocca, e “Sbatti” nelle orecchie, lasciavo che le mie

gambe indolenti spingessero la bici oltre tutto l’insieme di curve e attraversamenti che mi aspettavano.

Giunsi così in una di quelle vie che percorriamo solitamente, in quei pomeriggi bui d’inverno che, pian

piano, iniziano finalmente a cavarsi beatamente dal nostro percorso stagionale. Precisamente lì, lungo

quel marciapiede, ricordo di aver fatto una delle mie solite battute sporche - mi ricordai anche del pugno

allo stomaco che seguì tale burla, ma noi questo ai posteri non lo lasciamo -. E fu esattamente lì, che

questa piccola epopea incominciò. Mentre proseguivo nel canto mesto di Gazzelle - mannaggia a te che

me lo hai fatto conoscere, quasi mi vergogno di dirlo -, una donna sui 45 anni tentò di fermarmi.

All’inizio, vedendola, non capii immediatamente cosa volesse: mi sembrava solo preoccupata. Mi tolsi

quindi le auricolari, almeno per capire di cosa avesse bisogno. Appena aprì bocca, capii fosse dell’est

Europa - ad intuito dico ucraina -. Con questa cadenza straniera, la signora asserì d’essere una

badante, e che l'uomo a cui stava prestando cure era caduto, e non riusciva ad alzarlo. Qui la critica si

potrebbe dividere: c’è chi, davanti a tale situazione, non avrebbe indugiato, precipitandosi a soccorrere

l’uomo; e chi, invece, avrebbe sospettato, e di conseguenza desistito, lasciando che la povera lavoratrice

in ciabatte se la vedesse da sola coi paramedici. Personalmente - reduce dal racconto suicida di

Dostoevsky, “Il sogno di un uomo ridicolo”, dove il personaggio dello scrittore stesso ignora la richiesta

di favore da parte di una giovane bambina terrorizzata e in ansia per la madre -, ammetto di aver

rischiato, acconsentendo così a prestare servigio; ero ben consapevole di ciò che stavo per fare: entrare

in casa di uno sconosciuto, accompagnato da una sconosciuta che mi aveva fermato per strada - non è

sicuramente l’inizio delle più belle storie d’amore e gloria -. Tuttavia, non mi sentivo in pericolo, seppur

avessi iniziato, mentre seguivo la ormai non tanto giovane sorvegliante, ad immaginarmi ricoperto di

sangue, sporco di ghiaia e tumefatto dei pugni di 10 russi ubriachi che m’avevano adescato solo per

usarmi come biglia della loro roulette. Ciononostante, m’ero pure iniziato a domandare come fosse

possibile che, dopo tanti stereotipi, non mi fosse capitata una super modella rumena, al posto di

quell’estranea – la quale, OVVIAMENTE, avrei rifiutato al primo comportamento sospetto in tutti i casi -.

Da ciò puoi dedurre che smisi abbastanza presto di preoccuparmi. Circa quando salii le scale di un

vecchio condominio ammuffito, ancora “decorato” di rifiniture anni ’40. Mi mettevano a disagio:

somigliavano a quei soprammobili da mercatino delle pulci. Che ribrezzo.

Andando avanti, fui condotto in un appartamento che conservava gli stessi canoni estetici dell’entrata

comune: pieno di oggetti vecchi, casuali, dai colori spenti e mischiati al grigio. La “tutrice temporanea”,

che non seppi mai come diavolo si chiamasse, mi portò immediatamente nella camera dell’anziano, che

da quello che compresi, tra una discussione sbiascicata e l’altra, si doveva chiamare “Fermino”- non

voglio credere fosse un modo che usava l’impiegata per dirgli di stare immobile a farsi aiutare, perché fa

troppo ridere come nome -. Fatto sta che Fermino, era disteso sul pavimento, con le gambe piegate, due

cuscini sotto la testa, e un orribile cardigan viola che somigliava molto a quello che indosso io per farti

arrabbiare. La balia iniziò da subito a darmi ordini, in modo che potessi aiutare il suo cliente. Questo era

abbastanza rintronato, non capivo molto cosa dicesse. L’unico che compresi appieno, fu il suo dolore

alla gamba, che gli impedì, al nostro primo tentativo, di rialzarlo. Afferrato questo, nell’umida atmosfera

di quella stanza sporca, alla seconda, riuscimmo a riportarlo in auge sui suoi stessi piedi, dandogli anche

il supporto del girello che apportasse stabilità all’infermità senile di quell’essere.

Un po’ mi faceva paura: le mani, che strinsi fino ad un secondo prima, erano piene di lividi neri e

marroni; gli occhi erano incavati, e la barba assomigliava alla mia quando avevo 13 anni. Era uno


zombie di carta pesta in sintesi. Orripilante. Tuttavia, riconoscente, visto che mi porse le sue dita

tremanti, a stringere le mie anellate, solo per ringraziarmi dell’azione benefica.

Abbandonai così i due. Senza altri convenevoli. Ero un po’ in ritardo, e dovevo correre dal professore –

sperando che nel frattempo non mi avessero rubato la bici -.

Il punto su cui mi vorrei soffermare non è tanto la storia surreale in sé, ma l’ironico corso d’eventi che ha

seguito il nostro breve dialogo. Mentre rimettevo le auricolari e rimontavo in sella, ho appreso di non

voler invecchiare. Di non essere disposto a diventare come Fermino. Magari è stato pure una bravissima

persona durante la sua vita; ma io non voglio divenir come lui. Preferisco davvero morire a 50 anni. Lo

pensavo mentre mi avvicinavo, sempre più, alla meta extra scolastica. Però, c’è da dire anche che,

mentre mi lasciavo andare ai pensieri, mi rendevo partecipe della mia stessa riflessione secondo cui è

inutile preoccuparsene. Ho 17 anni: la senilità - per quanto temibile - non è cosa che m’appartiene. E

spero non m’apparterrà mai; ma tralasciando questo discorso: è inutile che mi ci soffermi.

La verità ? Volevo scrivere una lettera a te, dove ti parlavo, dove facevo capire di starti pensando -

anche perché, non l’ho detto, ma mentre varcavo la soglia del piccolo palazzo nascosto, avevo la tua

voce nelle orecchie che diceva: “Ma sei fuori ?! Ma cosa stai facendo !” -; solo che mi serviva una scusa,

e la mia fervida capacità di collegare le situazioni all’interno di un documento Word, me ne ha concessa

una. Ironico no ? In ogni caso, giunsi anche a lezione, senza far ritardo. Stetti lì un’ora, per poi tornare a

casa, stanco di goniometria, triangoli e matematica in generale.

Ora sto scrivendo dalla mia scrivania, con questo computer scassato che tengo quasi per ricordo. Un

soprammobile, tipo quelli di Fermino. Sto scrivendo, e penso al fatto che sono finalmente leggero del mio

romanzesco, tormento emotivo. Penso anche che una lettera così sia più adatta ad un periodo più

tranquillo di quello che in realtà stiamo vivendo: incombe su di noi un futuro che non lascia spazio. E non

per colpa nostra; ma per via della situazione che inizia a stringersi intorno a tutti. Stiamo entrando negli

ultimi mesi, e tra scuola e stato, non so più quale stia affondando più in fretta. Non voglio ricordare

questa particolare giornata in data odierna - sarebbe come condannarla al ricordo di una situazione

circostante difficile -, quindi la cambierò. Tuttavia, ciò non muterà le cose importanti: c’è il sole, ho finito

di ascoltare “Sbatti”, Fermino cammina ancora, io sono vivo, e noi due stiamo bene.

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