Il lato oscuro dello scrivere – il blocco - Riccardo Mantovani
A volte capita di perdersi per strada. A me succede sempre. E' tempo che non scrivo. Quasi mai succede sia esaltato o soddisfatto di ciò che mi pongo davanti.
Mi siedo al computer, e cerco di tirare fuori qualcosa - di solito cerco quel meglio di me, che non penso manco esista -. Tuttavia, il senso di vuoto mi cattura, sicché possa scagliare - gettarlo con astio - il mio involucro cavo - impaurito -, in un turbine di rabbia, frustrazione e disagio. Vampate di calore mi invadono, cogliendomi fuori luogo, pure nel mio stesso vestiario - davanti ad un foglio, sviluppo tutto nella fatica della penna, e dell'inaccettabile bruttezza calligrafica -. Mi perdo. Non mi sento più in grado di scrivere nulla.
Percepisco la banalità di ciò che dico nei ripetitivi cancelloni che fo - figli di parole deformi; come aborti rubati, congelati e poi seppelliti a nome di chi non voleva dar vita alla propria sofferenza -. La vedo, la nullità di significato, nei modi con cui m’esprimo. Nel perpetuo sentimento di prigionia che empatizzo; e in cui intingo questi segni convenzionali blu.
Il peso del mio nulla mentale mi vomita, e seppur sappia quanto ogni rumore sia necessario, ammazzerei quel compagno che tiene ritmi sconclusionati, battendo le dita sul banco.
Mi isolo, cerco, leggo, studio; ma nulla. Ed è sempre più ira, fastidio. La penna non scorre il cursore trema, la testa si apre, per colpa di quei rumori: lo scatto della biro; il ritmo della opening di Attack On Titan 4; i discorsi buonisti e approssimativi a scopo politico - perché ancora “troppo giovani” per comprendere; seppur, loro, troppo vecchi per essere ancora in piedi a spiegare -; i tasti del portatile, vecchio, e impolverato. Una macchina da scrivere, letteralmente, vecchia quanto me.
Lancio la Bic. Distruggo l'Acer. Sbatto per terra i libri, spacco la faccia a quel tedioso “anime boy”; e... mi sento stupido. Incapace di riprendere in mano quell'arte fugace. Sono stufo.
Segno l'ultima lettera, e sbatto con furia, il carrello di quest'Olympia SG.
Mi svesto e, completamente nudo, corro a riempirmi un bicchiere di Scotch.
In bagno, mi accendo una Lucky Strikes, consapevole di essere un fallimento - avevo promesso alla mia ragazza che avrei smesso sia di bere che di fumare. Non mi sorprenderebbe se ora mi lasciasse. E' l’ironica epopea di ogni scrittore finito -.
Entro in doccia, sotto la pioggia fredda, sull'asfalto rugoso e cancerogeno delle mie lacrime bruciate. Sono morto, sul lavoro. Mi avevano avvertito: lo scrittore è il mestiere più pericoloso al mondo. Vai a letto con tutto, e ti risvegli con niente. Ero il peggiore degli scrittori mai nati e vissuti. Pure tra i miei amici, artisti. Ora, neppure quello.
Chiamo mio fratello, che corre da me. Sono ubriaco. Sono nudo, e languido.
Lo scruto con sguardo di vergogna, riflessa nei suoi occhi delusi.
"Versa" è tutto ciò che ho da dirgli, indicando la bottiglia sul lavandino, cangiante di madre perla verde.