I flussi di coscienza mi hanno distrutto l'anima - Riccardo Mantovani

Scrivere tutti i giorni fa schifo. Lo detesto. Il continuo tormento emotivo non assimilabile in altri modi. Un veleno che scorre di millilitro in millilitro, come ruote chiodate all’interno dei canali venosi. All’interno dei capillari oculari, che divengono pesanti. E le palpebre chiudono i petali della giornata, prima che essa inizi. Ogni parola che digito, che scarabocchio, che incido, diventa reale. Tangibile. Riempie un vuoto continuo, che però mi opprime nella sua complessità. Mi opprime se privo di qualsiasi cosa; mi opprime se pieno di qualsiasi cosa. Soprattutto, se quel “qualsiasi cosa” sono io stesso. Le mie frasi. I miei pensieri, che non nascondo più. Qualcuno sa cosa voglia dire non sentire i pezzi di sé ? Non percepirsi nel toccarsi il viso allo specchio ? Nel non riconoscere i propri comportamenti, che però proseguono comunque, e si fanno sempre più gravi ? Qualcuno sa cosa voglia dire gridare il proprio nome, per vergogna nel chiamarne un altro? La paura e il disagio nel pensare una persona, perché se no, reale la sua assenza. Perdere la bellezza lata, quella emotiva. La sensibilità nell’ascoltare una canzone, che nessuna suscita più nulla. Perdere l’enfasi dell’arte, che nessuna forma è più soddisfacente. È un braccio staccato, un piede dolorante, un occhio nero tiratoti dal tuo riflesso, la lingua morsa a tagliarsi a metà. È una parte di te che scompare. Un arto fantasma di cui senti il peso, che rispetta le regole biologiche, ma non si vede. E l’unica cosa che provoca, è dolore. Ogni flusso di coscienza mi allontana dalla tangibilità dei ricordi. Dal realismo del vissuto. Ma non è stata una favola. Non è stata una storia. È un' esistenza di secondi nati, nutriti e nascosti: ti attraversa come la Route 66, e non puoi fermarti. Mai. Alzo la radio, ma passa una canzone malinconica. È una riflessione continua, lenta. Mi scava attraverso con un coltellino svizzero. In modo ordinato e maniacale, taglia piano piano ogni trancio di carne possibile. Evita gli organi vitali, e mi lascia sanguinare. Il bruciore è simile a quello delle lacrime. Venire al mondo piangendo è terribile. È la prima cosa che impariamo a fare. Sporchi di sangue e piangenti. La solitudine opprimente che possiamo affrontare crescendo, anche quella c’è da sempre. Solo che sentire il sale, sui petali rosei, che striscia ruvido e ghiaioso, sulla superficie liscia di noi, ci distrae abbastanza da non prenderne coscienza. Ma del resto, non abbiamo consapevolezza. La nostra anima, per noi, non esiste. Noi, non esistiamo. Nasciamo morti, per resuscitare, e morire ancora. È un ciclo continuo che si ripercorre all’infinito nel tratto di quell’arto fantasma. Una condanna, una fattura. Bambini immortali e maledetti. Vampiri di emozioni e picchi di felicità che non sappiamo neanche raggiungere da soli. Una droga non reperibile da nessun pusher che ci conduca sulla strada della devianza. E la gente per bene ci dice che non ne abbiamo bisogno. Che possiamo disintossicarci. Però quella stessa gente poi, nel suo placido benessere da caratura soppesa, è prima nella fila dei momenti extraterrestri. Come se la felicità fosse per convenzione, sulla Luna. Su Saturno. Su Urano. Su Nettuno. La felicità non è in nessuno, se non in chi sa d’essere sotto terra. I gioiosi sono morti con i principi azzurri. Hanno attaccato bottone tra loro, e come stupidi narcisisti arroganti, si sono seppelliti a coppie in banchi d’acqua argentata. Hanno fatto coiti di tramonti in vela. Hanno dato vita al romanticismo e a tutta la questione sensibile. L’hanno resa reale; leale ai suoi discendenti. Gli eredi dei primi gioiosi però sono i tristi. E i narcisisti, non aman niente se non lo specchio. I primi allegri, si sono chiusi con qualcuno che cercava un manichino da tangere, con uno strato d’acqua riflettente che intercorresse tra un viso e l’altro. La gioia si tramuta così in tristezza. La felicità è morta. Sepolta nella carne sventrata, seppellita nelle acque gelide. Coperte di Narciso. Sono felice come mai, ma sono troppo distratto per rendermene conto. Questo mi ronza in testa tutti i giorni, come musica da discoteca rimbombante e isolante. Vorrei avere più pubblico, vorrei avere più seguito. Essere più conosciuto. Avere più falsi amici, che mi aspettino solo per tradirmi. Solo per illudermi di non vivere una pagina letta seduto in solitaria, al terzo piano di questo penitenziario grigio. Una pagina completamente bianca che non parla altro che di me. Vorrei qualcuno mi leggesse e mi venisse a dire: “Guarda  ho scoperto quello che hai detto. Perché non sono d’accordo ma sembri comunque interessante”. Voglio essere amato per amare, per impegnarmi in qualcosa che non sia quel tratto immacolato, che custodisco come la cosa più bella abbia mai scritto. Metto la mano nel cancello del cane, e me la mordo fino a rompermela e fasciarmela. Chiedo una maglia per nasconderla. Mi lavo con i vestiti addosso, e la barba è un campo di fiori anch’essi bianchi, che non colgo. Che nessuno coglie. A quanto pare sono diventati tutti abbastanza sensibili da respingere chi vorrebbe solo stare bene. Perché mai qualcuno dovrebbe cercare individui che stanno già bene ? Che gusto c’è poi nello stare bene in due ? I flussi di coscienza mi hanno distrutto l’anima, ch’è ora un arto fantasma. Disteso per i corridoi in sguardi di biasimo nascosto. Perché nessuno guarda mai lo sfigato nell’angolo. E paradossalmente va bene così, tanto “non sono uno sfigato”. “Non sono un alieno”. Faccio parte del vostro mondo giusto? Sono con voi, però solo come sagoma di rimpiazzo. Una comparsa. Un manichino su cui mettere una stampa della vostra faccia sorridente. È così ? Perché leggo con voi che mi camminate a fianco. Un “cos’hai mangiato?”. Un “come stai” detto per strada mentre non ci si ferma di correre. Così, detto per dire. Perché nessuno è sincero se non lo vuole essere, e nessuno lo vuole essere con uno che ascolta “Miss Misery” sulla sua ‘64 mentre gira tra i canyon nella Route 66. Sono felice come non mai, ma il vento salato del mare che non vedo mi distrae troppo per rendermene conto. Ho promesse da mantenere che non ho mantenuto, e mi ci sento terribilmente in colpa. La gravità mi pesta le ginocchia; mi picchia lo sterno coi tira pugni; mi tira i capelli già corti per terra, per tenermi la testa bassa. Colpi di frusta sulla schiena e sul collo: una cravatta a cima del porto. Raccoglierei un po’ d’uranio e fuggirei nel futuro col gatto. Adoro i cani, ma sono troppo fedeli. Io sono un falso: un manichino che tiene manichini, che racconta di principi azzurri vinti non da orchi, ma da lama parlanti. Che scrive sulla panchina di un parco. Le foglie sono toccabili. Posso sentire il ruvido e lo sporco che sento nel mettermi le mani sugli occhi. Sono tutte mie amiche, sono salvatrici. È un benessere particolare. Un benessere racchiuso in una canzone in loop, che poi stanca. Che poi ne chiede un’altra identica, ma diversa. Che faccia esprimere le stesse emozioni. “O povero ragazzo, non sai davvero esprimerti.” No. Urlo “mama” alla luna per strada proprio per questo. L’arte altrui diventa la mia, come la personalità che non ho mai avuto. Voglio essere conosciuto, che mi si legga perché consapevoli che abbia talento. Non ci credo che tutto questo tempo speso alla tastiera del computer non porti nulla a nulla. Nulla a nessuno. Davvero? Che inutilità l’esistenza passata a suon di libri letti per formarsi. Per essere maturi. Non è mai questione di maturità, o bellezza, o portamento, o gioia, o amore, o odio: trova l’egoismo che ti si addice e andrà tutto bene. “Trova ciò che ami e lascia che t’uccida” eh Buk? Fa male. In una maniera quasi banale. È tutto fin troppo ordinario. Siamo reduci di un sistema emotivo retrogrado, che cerca e cerca i gioiosi: una vita sulla vetta della montagna. Sulla cima dell’universo inesploso: ma basta una canzone sbagliata alla radio per chiuderti nella bara col muso. Stupidamente facile. Un giorno ci sei e quello stesso giorno non più, e l’allegria che hai mostrato a tutti, malleabile com’è, come un mucchio di sabbia o pongo, viene presa e usata come tiro da tre nell’oblio mnemonico. Sono parole difficili da dire. Voglio dare la felicità che ho a tutti solo per sparire io, quando me la sento, lasciando che sentano solo quella. Non voglio soffra più nessuno per nulla. Rivoglio i gioiosi nel mondo. Voglio essere l’erede triste, che diventa l’erede dall’anima che ride. Ma il sole mi invecchia lasciando crescere questo campo di fiori. E più vai avanti più l’arto spettro si cristallizza. S’indurisce, come la superficie della torta tenerina di mia madre. Diventa fragile e duro. Basta un cucchiaio, una forchetta. Ma la mangio da solo. Però mi rende contento. Una mestizia che cela quello che realmente provo. È troppo difficile mostrarsi per i bimbi immortali che siamo. Però basta un incontro con la spontaneità per stare bene. Vorrei essere come quel ragazzo che incontrai al parco, che, rachitico come pochi, possedeva musica da superstrada nel cuore. Vorrei essere turbolento da rendere tutti felici come lo sono io nell’essere vivo senz’anima. Ma non so come fare. Non lo so fare. Vorrei venissero da me per vedere il mio impegno, e mi dessero tempo per incolparmi, pentirmi e redimermi. Vorrei mi conoscessero per questo. I fiori di ciliegio sbocciano nel periodo più freddo dell’anno, e tutti li osservano. E se facessi un’altra promessa e non la mantenessi? È un blues country messo al tramonto. Un rock pulito. Un rap esuberante. “Life is a Highway” sul divano. Basta volerlo. L’acqua fredda del mare di Bellaria, scaldata da un Luglio infame. Lo stile da tossico con la giacca nel teatro di cinghie dello zaino. Un barbone. Un campeggiatore. I flussi di coscienza mi hanno distrutto l’anima a rendermi incoerente e bipolare. Voglio pesare per la mia tristezza così che la gente mi ricordi per il sorriso che ho fatto. Che sa che era sincero e unico. Un vento che porta via i panni dal filo da stendere, e li getta nelle mani di passanti generosi e egoisti d’altruismo. C’è un freddo porco in questa saletta. E concluderò questo testo con una canzone triste e un caffè amaro come la bellezza svanita. Una foto che non volevo vedere, e i granuli di zucchero sotto la lingua. Però, la nota nera, come una lettera d’addio, come una delle lettere che sto scrivendo per farmi notare un’ultima volta sul giornalino cartaceo, mi sembra molto più felice di quel che poteva sembrare all’inizio. Odio ogni lettera che ho digitato. È uno sfogo controllato ogni gesto che compio. Un compendio emotivo dei bei momenti che ho passato. Delle perifrasi che leggo da altri scrittori, che però non arrivano mai ad un dunque vero e proprio. Tutti rachitici tossici alcolizzati, dalle barbe incolte e i dilemmi irrisolti. Ma del resto: senza drammi, il libro non fa soldi. Indovinate la differenza tra scrivere per vivere e vivere per scrivere. Poi rendetevi conto, che io scrivo solo per non scrivere più. Un cristo d’eroe della notte che guarda “Noi siamo infinito” e “Will Hunting” solo perché consapevole di essere un genio nell’essere stupido e infantile. Voglio i punti. Cos’è, adesso lo gestisco io il blog? La gestisco io la rubrica di poesie e racconti? Dov’è il mio stipendio. Dov’è la mia targa da studente meritevole, che vi dà la tristezza. Che scava nella fossa attiva più lurida del mondo - se stesso - solo per darvi questi momenti di speranza. Questi momenti in cui un incontro casuale non riesce ad essere rovinato neanche dalle foto di un cuore spezzato. Giusto, non dovevo più scrivere di ciò. Come a Gennaio non dovevo più scrivere cose così malinconiche. Ma nessuno dice nulla. Tutto un gioco vero? Dove siete scrittori? Dove siete studenti? Dove sono tutti. Del resto: facciamo tutti parte delle vite di tutti. Non siamo isolati come dico. Non stiamo leggendo pagine bianche su pagine bianche. Le persone più intelligenti sono quelle che mangiano fantasy, perché le uniche domande che si pongono sono quelle legate alla magia necessaria per trasformare un castello d’avorio e lapislazzuli in un sobborgo fanta-medievale post-apocalittico, dove fazioni di maghi, ladri, troll e ibridi acquatici combattono a morte per il possesso degli ultimi rimasugli di letteratura umana. Dove il santo Graal è “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen. La parola di Dio è dettata da “Sul Bere” e “Sui Gatti” di Bukowski. La morale è insegnata per “Il vecchio e il mare”. “Per la pace perpetua” di Kant è il manifesto nazionalista di una banda di rivoltosi che s’è scordata di studiare Hegel a scuola, e le repliche dei discorsi genocidi di Eren Yeager sono i programmi radiofonici messi durante le rivolte per strada. Dove siete? Perché mi fate sentire così solo? Io scavo in me. Scavo nei libri. Scavo nei film per trovare le risposte che voglio. Ma magari voi le avete già. Sto suonando la tastiera del Mac con la stessa intensità con cui sulla spiaggia a casa di Seba suona “More Than Feeling” ubriaco marcio di birra di sottomarca, giusto per rendere speciale l’ennesimo tramonto frutto di coiti falsamente romantici tra narcisisti e gioiosi. Sono il più felice di tutti, ma nessuno mi aiuta a dimostrarlo. Non me ne date la possibilità. Non c’è competizione. Non c’è sentimento in nulla di quello che vedo e scrivo. Devo chiamare gente da altre parti d’Italia per aiutarmi a scrivere qualcosa in compagnia. Non c’è da essere pudici. Esistono metafore, dissimulazioni, frasi scritte in modo contorto. Pubblicate un pensiero. Un flusso di coscienza che di spacchi l’anima nel rendervi partecipi della distruzione emotiva che ci pervade. Che tutti stanno sempre dannatamente bene e sono sempre dannatamente impegnati per farsi un bicchiere in compagnia. Che sia pure di acqua naturale versata in uno troppo grande da tenere in mano. Vetro francese dell’Ikea comprato a 4.95, e divenuto simbolo di un amore impossibile. Sono l’unico così? Sono solo io? Voglio la targa da studente meritevole che diventi uno dei cocci rotti del mio specchio preso a pugni, così che mi formi una nuova anima capace di far ridere le persone. Perché sono dannatamente triste e prolisso. Datemi soddisfazione. Voglio ridere nel non sentirmi il più bravo di questo manicomio scritturale. Voglio essere biasimato solo per non essere l’unico che si sente proiettato verso il soffitto mentre digita con furia questi tasti. Cristo la mia coscienza è tutta qua dentro. Non sento nulla. Peggio di quando sono ubriaco. Mi vedi? Dai dimmi che mi vedi. Che sono dannatamente felice e troppo concentrato per scordarmelo. Sono in pendenza verso tutte le stelle fisse che Aristotle, dall’alto della sua ignoranza, pensava fossero il limite dell’universo. Sono Giordano Bruno che prende fuoco per il movimento veloce delle dita che non fanno attrito con la penna, la tastiera e tutto ciò che può essere sentito col tatto. Arti fantasma, arti Casper. Sento la sua pelle rosea sotto gli anelli freddi che indosso. La sento che pulsa e che trema. Sento il caldo e la calma che trasmette. La prendo tutta e rimpiango ogni momento. Non c’è nessuno che sta leggendo questa pagina sfrigolando i capelli nel vento della strada ad alta velocità sulla decappottabile, mentre il dj stoppa il programma allo stereo manuale. Senza bluetooth. Senza Spotify. Solo cassette e cd. Quanti ne ho comprati per questo momento. Le raccolte che ho fatto. Che schifo le playlist. Ecco quello he volevo mostrarvi. Ecco cosa intendo. Sotto, sotto, sotto, sono più felice di tutti voi messi insieme. E qualcuno potrà dire: “bene, buon per te”. Ma non è così, perché nessuno mi si mette davanti, dandomi il tempo, per fargli vedere e ridere. Matteo sono 16 anni domani che aspetta, e solo ora ci sono riuscito. Compie 18 anni, ed è il mio migliore amico da quanto ne abbiamo 2. Raccontatemi di voi. Siate tristi pazzi persi nei problemi della settimana. Perché ci dobbiamo ignorare se per i cristiani siamo tutti figli dello stesso padre? Se per gli hippie siamo tutti fratelli di LSD? Perché? Come fate a sentire quello che sono senza darmi la possibilità di mostrarvelo. Mi avete buttato voi con un narcisista nel lago. Io vorrei solo essere s’un tetto delle case al Lago di Garda che vedo dai tornanti della montagna, a guardare la luna con la strato bianca di mio padre, che suono una melodia triste, poi allegra, poi triste, poi allegra, poi allegra, e poi esuberante. Sveglio le stelle dei quadri di Van Gogh. Gli faccio tagliare anche l’altro orecchio lasciando che lo usi per dipingermi. Che solo gli idioti si presentano in Francia per lui, sapendo tutto, e cercando di capire cosa provava. No, non lo cerco di capire: voglio me lo mostri. Davanti la tomba di Jim Morrison e della sua L.A Woman. Della sua barca di cristallo lungo le rive di Spoon River pieno di girasoli. Un bandoliere veneto che bestemmia sulle note di Freddy Mercury. Voglio essere questo. Voglio lo siate con me, stupidi sconosciuti. Lo voglio lo voglio e lo voglio ancora. In alto i bicchierini di caffè, i libri di matematica e fisica. In alto i problemi, le scelte, gli errori imperdonabili: giovinezza sempre. Legato così tanto alla vita, a volte da volerla quasi restituire solo per sentire il brivido di perdere la cosa più importante che abbia. Qualcosa così facendo già è stato perso. Ma va bene: sorridi con me comunque. Sorridi, e dimentichiamo che io i 18 anni li compio a Settembre, e domani Matteo sarà più vecchio e saggio di quanto io non lo sia mai stato. E lo penserò suonando la chitarra d’aria salina che nessuno mi ha permesso di portare, con uno sguardo languido mentre attendo che Seba mi chiami e mi prenda a calci per uscire in camicia e divertirci la prima notte dopo la fine della scuola. 10 Giugno traguardo finale. 11 Giugno, nuovo tracciato, deludente come al solito. Solo come un cane randagio affetto da vermi. Sono uno dei vermi nel suo stomaco. Suono coi denti tremanti dal freddo e dal panico. Niente è davvero importante. Kurt spara qua. Dammi uno dei tuoi ultimi respiri. Dammi l’ultimo respiro. Buk suonami qualcosa a quel piano scassato. Matte faccio una jam session che poi parto e vado con Shakespare a ballare Amleto a teatro. Faccio un’altra playlist. No, un’altra raccolta da mettere nella macchina che un giorno avrà mio fratello. Che un giorno quel compagno di classe userà per scarrozzarmi - anche se ora non vuole. Che un giorno sarò io a comprare per girare la 66 di Cars. Masterizzo il cd e urlo dal finestrino per il caldo, su una provinciale abbandonata. Mentre tutto questo sarà solo un ricordo. Però voglio sia più vivo degli altri. Voglio l’adrenalina del leggere qualcosa che mi faccia dire: “porco schifo, non so proprio scrivere”. Dai dai dai. Sono stanco e stufo di essere sempre in corridoio nell’angolo, con quella bella ragazza bionda di quarta, che col suo sguardo spocchioso, mi squadra dall’alto verso il basso manco misurassi un metro e quaranta. Dai: lo so che sono vestito come un tossico straccione, ma non me lo concedi un ballo stasera? Facciamo finta che i principi azzurri non si siano estinti con quell’impomatato, invaghito dello status di Fiona, che abbiamo tutti odiato guardando Shrek. Dai, conosco un bel pezzo dei Police. “Every Breath You Take” è alla radio lungo il guard-rail del cortile. Quel bolide della mia bici sgonfia è lì che aspetta di caricare qualcuno. Sono più simpatico di quel che sembro se me ne si dà l’occasione. Però vai oltre la pagina bianca. La copertina sporca di cenere e appunti sui sepolcri. Che la verità è che Jacopo Ortis non se l’è mai fatta Teresa. E Verter non era in nessun modo fonte di attrazione per Lotte. Non per come si presentavano. Si fermano tutti all’aspetto esteriore ora che abbiamo bandiere LGBTQ+ ovunque, pensa agli inizi dell’800, quando se facevi un passo sbagliato ti sbattevano in esilio. Erano felici, solo che erano quasi fieri di non riuscire ad espiare questa colpa di tristezza. C’era bisogno della scintilla. Morti i romantici e i gioiosi, ecco il ventunesimo secolo. Poi: il suicidio vende un sacco. Sopratutto se morale. Pensare “Money” e “Time” dei Pink Floyd. Istigo e istigo. Tendo verso l’inferno, e noto Hitler che gioca a volano con il diavolo dei Simpson. Vedo tutti i dannati di Dante, e i più belli rimangono sempre quelli alle porte del Purgatorio, che si rilassano lì a leggere “L’Origine delle Specie” di Darwin. Io sono una “Alta felix sola planta” - direttamente dal traduttore latino/italiano di Google. Strimpello “American Woman” di Lenny, e strozzo qualcuno a caso con le corde della chitarra. Neanche questo potevo dirlo. Oggi c’è il sole, ed è dannatamente rilassante sapere che dietro le nuvole, e sopratutto dietro la tenda tirata della casa davanti cui sono passato, qualcuno stia dando vita alla stupida fisicità sensibile dei sentimenti, studiando la posizione astrale dei nei amanti. Che bello l’amore. Che brutto amare l’amore. Che terribile amare l’amore solo se amati. Che scompenso amare l’amore solo se amati da qualcuno che non sa amare l’amore d’essere amati, solo perché, mai stati amati. Belli gli sciogli lingua. Almeno non me la spezzo tra i denti come prima. Odio i flussi di coscienza, mi hanno spezzato l’anima. Ma sono anche l’unico modo che ho per mostrare a tutti il dualismo spirituale che un ragazzo di 17 anni può avere da sobrio. Sento la suddivisione di colori in me, come un vestito fatto di pezze cucite - Pulcinella è sempre stato il mio eroe recondito. Quando si è disinibiti, anche dalle situazioni, siamo solo un colore morto. Carino. Piacevole come gli evidenziatori pastello delle ragazze che paiono “per bene”. Però, preferisco la grandezza di un colore acceso che mostra tanti altri colori accesi, mischiati in un turbine di capelli crespi, ricci, lisci, mossi, mori, biondi, gialli verdi blu. La cosa più bella del mondo è accarezzare qualcuno, consapevoli di essere completamente persi per quella persona. Dargli un bacio, ma piano, quasi con la paura di romperlo. Trattare coi guanti di cristallo di quel pazzo di Michael Jackson chi si ama. No, non sono tipo da botta e via in discoteca. Però potrei diventarlo se continuo così. Il fatto che lo diventi non vuol dire che poi cambi qualcosa: palato rimarrà il mio nome d’arte. Segno della mia indole. Ma non posso essere solo io. E nessuno viene a parlarmi a caso. Voglio qualcuno che mi parli a caso. Mi distragga dall’essere distratto. Che apprezzi i primi spezzoni tristi, con le descrizioni macabre e cupe, solo perché consapevole della felicità di fondo, che a volte è troppo a fondo lo ammetto, ma che c’è. Però se nessuno scrive, nessuno fa nulla. Devo sostenere io il peso della rubrica? La magia, la forza dell’arte? “Hai la poesia nelle vene. Ti scorre dentro.” Immagino sia l’ultima cosa che mi ricorderò. Però no. O forse sì? Non c’è anima viva che mi dica il contrario. Sono troppo per troppi e mi gira in testa sta cosa. Ridimensionatemi. A nessuno piacciono gli arroganti. O forse sì? Odio dover scrivere per tirare fuori questo lato di me. Odio scrivere da solo. Leggere da solo. Guidare da solo. Bere da solo. Dormire da solo. Vivere da solo. Lo odio. Nessuno, davvero nessuno, prova lo stesso? Sono felice. Completamente. Ma sono troppo distratto per rendermi conto che i flussi di coscienza mi spezzano solo per darmi forme nuove e più vivaci. Più equilibrate. Sono la persona più triste e felice al mondo. Lo scrittore migliore e peggiore mai esistito. Il più talentuoso e il meno abile all’interno della redazione. Sono il favorito e lo sfavorito. Ma sono troppo distratto dal riflesso nella finestra, che manco guarda me, ma chi cammina fuori, per rendermi conto che ciò che sto facendo è completamente giusto e completamente sbagliato. E che per salvare sta baracca, c’è bisogno di più gente che si cerchi, come io cerco i cocci a fiore di me. I boccioli bianchi e le margherite rosse. Sono tristemente gioioso ed esuberante: ma l’esser venuto piangendo in acque argentee, mi distrae sempre. Anche portandomi fuori Route 66.


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