Il bacio - Riccardo Mantovani

Qual è la sensazione di dare un bacio ? Io col tempo non ricordo più se l’abbia mai dato. Non conosco più l’emozione di una tranquillità ripresa dal labbro. Quella velocità  è contenuta in una sigaretta: e il giramento di testa corrisponde ad amare qualcun altro. È da troppo che non uccido lentamente, solo per il gusto della vittima nel farlo. È quindi sempre  un ripensare al passato, per ricordare d’essere amato. Che nessuno te lo dice, se non sul ciglio del baratro. Quindi fradicio dei penati non dati, sono odiato. Detestato per l’amore che non seppi mostrare. A volte vorrei solo dimenticare la possibilità di riguardare ciò ch’è stato: giusto per tornare a quella pace, che non ho mai apprezzato. E cos’è “l’arte dello scontro”, se non l’intimità di un secondo. E cos’è l’arte, se non tutta la sofferenza che ho accantonato, riflessa in un sorriso per qualcuno che si merita la versione migliore di noi, in questo pozzo profondo di fango e acqua piovana. È grigio da due giorni, signori: ma vorrei ballarci sopra queste nuvole, che non sono che pozzanghere d’estasi evaporata. Dammi la pace Riccardo: sparisci dalla mia vita e dammi la pace che non mi hai mai regalato. Sei un fanciullo bagnato che soffia contro vento, un venerdì di Aprile. Ora, stai bene ? Forse si, forse no, e poco importa. Non hai controllo, se non quello che pensi di meritare. Non è vero che accettiamo i tocchi che pensiamo di poterci riservare: prendiamo solo quelli che sappiamo ci faranno male. Che ci feriranno nel profondo, per il gusto di star bene dopo. E le mie, le tue energie, sono finite. Piangi le tue ultime lacrime che c’è chi ha bisogno più di te, che te stesso medesimo. In fretta: non perderti l’ennesimo sbaglio: quello che non ti ha mai donato; ma che hai sempre sognato, e che arrivò, in un foglio diverso, da quello sperato. Sono i colori del pittore: e ne hai fin troppi per poter scegliere. Ma il blu, il blu del tramonto, quello è il tuo cuore di ottone. Ricordi il tuo ultimo sparo ? Non farlo, che porta solo sventure. Domani starai male, ma è solo parte di ciò che sei. Perditi nelle note di chi è preoccupato: della loro voce. O se mi dispiacque Mati: vederti con le acque nelle pupille, come grandi rive che dovresti vedere con distanza da qui, e non negli astri spenti del maltempo. O se conosco troppa gente, se ne ho fatta innamorare troppa. Stanno tutti morendo lentamente per colpa mia: sono l’ultimo tiro di sigaretta prima di prendere il via per tornare a casa. La fessura la fessura: una parola di lussuria: “Vi voglio bene”. E immagino sia così, nella mia eterna confusione. Raccolgo il grano seduto sul marmo del garage. Non è poesia, non è prosa. È flusso di un disperato: a te che sorridi in bici senza parlar mai, fai leggere di me: che il mio nome ponga legge. Sono il migliore di queste storie, senza remore. Senza affanni. Vorrei solo dimostrarmi e convincermi sia così. Che a respingermi ci si perda; ma il mio disagio batte schegge di legno: giudice del peggio. Quanti titoli per il mio flusso meriggio: aspetto Giugno solo per dimenticare Maggio. Aspetto Luglio solo per accettare Febbraio. Aspetto Agosto solo per ascoltare Settembre. Seb, Seb, scappiamo al mare e abbandoniamoci in spiaggia insieme. Che valiamo più di ogni discoteca di Modena. Eccola, eccola, l’estasi del ballo. Era la tristezza dell’andato, ed eccola la bellezza del prodigo tornato. Gre, Gre, capisci cosa intendo ? Si che lo sai. Giu, Giu, pensi ci stia riuscendo ? Esprimere un sentimento solo per le azioni che si sta compiendo, è come decidere l’ora solo per il movimento di un singolo dentello. Un randagio mi fissa seduto sul cemento. È la vita che fugge e libera, si fa amare dal mio risentimento verso essa. O fratello, o fratello, Matte, perché mi salvi ? Chiedimi di uscire e consacriamo l’amore fraterno davanti una birra all’aperto. Ecco il senso, il tintinnio del vetro temprato alcol. Lo scampanellìo come segnale dell’arrivo di Nich, Ca’, Despo, Sam e lo sgaso d’Enrico. Di Dade, Luca, Dev, Ricca’, Dani e Fillo. E nel mondo ci vorrebbero più persone come Marini, che tra i fumi omicidi si preoccupa dei suoi amici. Forse Lu, mi sono perso troppo il mio essere single. Ma eccolo, il bacio dal Qatar. Che è mesto, felice, eccitato e frustrato allo stesso tempo. E quindi brindo, brindo, brindo alla vita del gatto randagio. Del passero che mi si è posato per un secondo sul braccio. Dello sguardo dei due nonni, a cui sono grato, e che mandano corrispondenze, da molto molto, molto lontano. Versa un po’ di vino Bulga, che voglio mi vedano tutti. Pao, Stich, Alby, Dalla e Jaco. Voglio s’accorgano, che forse sono quello fuori campo. Quello fuori posto. Quello che per tempo, non ci si è sentito nel gruppo, ma che vi ha sempre ringraziato di avergliene dato la possibilità. Oh, è questo il passo. È questa la realtà. È tristezza, speranza, lacrime, sangue, vita e morte. È odio, amore, e passione. Combinazione di fuoco e benzina: la ragione e la sfera emotiva: so che non dovrei amare, ma amo lo stesso. So che non dovrei pensare, ma penso lo stesso. Ed è una continua diatriba tra bacio e sesso, ma cosa importa: era più bello avere qualcuno su cui contare. E voglio baciare me stesso sanguinante. Ho la sensazione addosso: il cerchio è chiuso finalmente. Vorrei ballare adesso. Mi devi un lento, un Gin e uno “sterotto”. Poni cerotto sul mio ginocchio, e poi fammi consolato. I petali di questa primavera gelata, cascano al mio passaggio. Corcano di botte il mio esile aspetto, celato da una giacca nera pece. Niente è davvero necessario, se non la necessità di considerarlo tale. Eppure, eppure: qualcosa di importante, lo è a discapito del senso razionale nell’osservarlo. Sono su Canal Chiaro che aspetto il tabaccaio: il mio è chiuso per lutto, e io mi vesto nel suo rispetto. Non lo voglio di nessuno, se non il tuo: uno scontro sanguinato tra gli autori delle parole più belle si potesse esprimere. È ancora impensabile come la cima che c’univa, ora sia sfilacciata in un’unica fibra distesa. Tesa a rompersi. Testa a porgersi, per una carezza che plachi la tristezza. Alla finestra, per strada, vidi l’arancio rincorrermi per denigrarmi. Affianco, uno sguardo a mungere i condotti lacrimali. Amici miei, che vidi qua al piano terra, dietro un vetro, con le cuffie a farmi da elmo per l’ascia della depressione: che segno faceste non lo ricordo; ma placò l’ansia come un tocco sulla fronte dopo un brutto sogno. Questo è un enorme racconto, posto in rima solo per la guerriglia tra ragione e constatazione emotiva. Qualcuno mi leggerà ? So che vedi, so che leggi qualche riga: falla leggere e portala via. Che non sempre si sta abbastanza bene, da non fare del male. C’è una qual malattia, mi disse, che trascende lo spazio percorribile pur dalla ferrovia. E quindi stammi lontano. E quindi muovi battaglia, che ancora non mi spiego come a conoscer tutto l’una dell’altro, possa esserci così tanto disagio. È questo il potere del dolore ? Basterebbe, un abbraccio. Basterebbe esser sfiorato in tutte queste forme che vi ho appena elencato. Tra gli intrichi di questi infiniti versi sciolti: come un gelato versato sul prato di codesto sabato primaverile. Bevi birra fino a svenire: che il verde è ora il colore più brutto ci sia. E il blu, è solo grigio all’imbrunire. Ma chi vuoi mi legga. Sono il migliore: e il migliore deve morire. La fantasia è sempre una fregatura. E so non esserci realtà nelle cose che vedo: se non la tortura di aver gli occhi attaccati al freddo. Ho i capelli che sono quelli di un pazzo: i fiori ricrescono sul mio volto, e cerco di scordare i campi che ho percorso; ma non apre il tabaccaio, quindi al tavolo sono già mezzo sbronzo. Ho si, il controllo: ma non lo esercito. La morte mi sta nella mano, come in quella di tutti. Dov’è Dio ? Nei nostri riflessi. Siamo decisioni divine subconsciali per noi stessi: geni polari su funivie senza cavi. Se volerò sarà per essere uno di quei gabbiani indicati dai bambini come aquile reali. L’apatia non è un gran scompenso: sono solo troppo stanco per rifiutare lo stampo che mi dà disteso, a letto, mentre stringo un altro nudo sotto zero. Qualcuno mi capirà ? Prego per il premio che riceverà. Il dissennatore racconta storie che priva di funzioni corporee quelle raccolte di speranze distorte, lasciando occhiaie comatose visibili pure se coperte dal correttore. Il bacio: è amore, dolore, disgusto, abuso, ansia, eccitazione; e, quando sparisce, pure la più grande depressione si possa sentire. Un bacio, un bacio, un bacio. Capito ? Un bacio. Un bacio. Falle leggere, un bacio. Sono follemente innamorato, di ogni amico. Lo giuro, lo giuro. E ogni giorno, io mi alzo solo per trovare un senso della loro gentilezza, nel tenermi la mano se tremo. È eccitazione. È immane dolore delle sepolture che vedo nei miei sogni. I sepolcri del mio amore. Voglio che il primo nome inciso sia il mio, e che non ci sia paradiso: ma un enorme pub in terra, per spiriti in cerca di risposte. Chiacchiere da ubriaco. La mia immagine riflessa nel viso distrutto: ma ci sarò sempre amico mio, e ti darò sempre tutto. Seppur non abbia nulla da darti, ti regalerò nulla di tutto. È un graffio, ci sei ? E quanto vorrei piangere, che i sentimenti mi fanno di nuovo preda. E quanto vorrei essere in grado, di entrare in chiesa come uno che prega. Ma mi ci pongo affianco e caccio una bestemmia, e lascio che ogni visione mi renda peggiore di quanto non sia già. Falle leggere, che per quell’angolo stetti bene. È un enorme fragile calice di cristallo, e bevo vino brindando al bacio fantasma che, amico mio, ti ha appena freddato. Accendere una paglia a cucchiaio vuol dire che qualcuno t’ha pensato, e per lungo tempo presero solo questo formato. Mi rendo conto solo ora di chi m’ha veramente cercato: la lista la tengo nella tasca sinistra in alto. Chiudo gli occhi col sole che sorge da dietro la coltre, mentre il vuoto accelera e rallenta nelle ombre della fantasia. Li riapro che il blu la fa da padrone, in un clima freddo temperato che mi porta via, in una primavera poco piovosa e fin troppo dolorosa. Il campo cani è sempre vuoto da quando non ci ballo dentro aspettando la neve: sul palco di erbacce e ciotole, facce povere d’anima con le lancette, diventano sabbia lavica. Denti di leone fanno da fiore alla mia tomba. Sono felice ? Non lo ricordo, ed è una condanna. Rivedo solo scene senza suono dei sentimenti: mettere il muto a città marittime nei mesi delle libertà scolastiche. Oh come vedo l’estate: sola e senza campane. Sole: senza campagne. Voglio correre per strade, con le ruote sgonfie, vedere Gio cadere per andare a Montale, e mi accende le posate sul fieno in fiore. Perché è così bello il dolore se scritto ? Prof, perché ci metto così poco a capirlo ? Il suicidio di un libro, per liberarsi dei demoni che ho superato, ma non obliato; per spolverare gli scheletri nell’armadio. Sarà questo esprimere i propri pensieri, senza vergogna. Senza questioni di meriti. Senza la suprema gogna degli insoddisfatti perenni che ci trattano come fossimo martiri. Non esiste bianco e nero, ma dividiamo tra liberi e carcerati. Forse sono un galeotto evaso dal pozzo di Lazzaro, che tra i limiti degli astri, ancora non si sente fuori dal baratro: perché incatenato sul fondo del proprio Tartaro: ogni vena ch’attraversa il plastico. Saper che fare, è un privilegio riservato a pochi: ma è negli ultimi scatti dei corpi, che riveli i tuoi segreti più sporchi. Ho corso i numeri sbagliati per non celar più  i fatti che mi sventrano il petto: non c’è cura alla delusione, se non la voglia di camminare allo stremo delle forze. Seppur si riveda tutto ancora e ancora, seppur ci si senta persi nella nostalgia: basta una volta, per rompere la barriera dell’armonia. Ed è solo una colla abbastanza potente a mancare: non l’hanno inventata ancora, quella sostanza per curare un cuore spezzato dall’onda, dello stesso mare di sangue che lo riempie. Nessuna parete rimane intatta all’uragano. È una casa scoperchiata, che mostra solo marcio. Si tenta di rimettere tutto assieme, ma sono passi incerti. Messaggi sforzati per muover piedi di paludi. Insetti tra cementi cercan tramonti. Fattorini sottopagati, muovono le notti, con testimoni che voglion parlare di dei e sensi ai citofoni. Trascinano le pareti morte e buie degli zaffiri, delle nubi cariche di gioielli, che alla luce diventano strappi di petali sospinti e strappati, da ciliegi spenti da ceneri estive. Sarò felice, sarò felice, ma non so se sarà così. Tra l’ipocrisia e la continua bugia di normalità, che non so neanche cosa sia, ma a me, a quanto pare, non s’applica; cerco di non affogare. I relitti e i mostri del fondale, s’aggrappano al mio corpo inerme. La gente o affronta o crede: qui siamo tutti rintanati nelle chiese. Sembra così semplice, volgere lo sguardo al cielo; perché è invece così difficile, volgerselo all’interno ? La confusione, il rumore: un vestito verde che cade, così soavemente. Ed è orribilmente bello: un colore che si vorrebbe amare sempre, ma che ormai, non possiede nulla di vero. Basta una polaroid, a rovinare l’esaltazione. Basta una lettera, a rovinare la conversazione. “Sembra inizi una nuova vita” ma sono sempre identico. E cerco ancora, uno sguardo tragico come il mio, asfissiato in me stesso. Sembra una nuova era, ad ogni fine guerra: ma la sindrome del sopravvissuto mi incatena al suolo, nudo e sotto abuso, con allucinazioni e voci in corpo, che mi dicon morto, per quella sottana che: vedo, sogno, e somatizzo in odio. È una tortura emotiva, che non so ancora come finisca: se non con la perdita della vista. I sorrisi, sono lame piantate negli occhi: senti il pessimismo decadentista nei miei sonetti. È il nichilismo dei difetti fatti sentimenti, divenuti file su computer infetti: feriscon quando son presenti - carichi di memorie - quanto quando sono persi - carichi di speranze nascoste -. Fa schifo volerli, solo per cancellarli, per poi poterli riavere tra gli eliminati, perché troppo mortificanti da consolare. Ecco come mi sento: in bilico tra un versante e l’altro, coi crampi al petto e le paralisi al cervello. Ecco come mi sento: male quando vedo. Fuori splende l’oro, e ballo all’uscita dell’orfanotrofio che mi sento ancora solo; ma mi indicano uno spazio vuoto che mi fissa, mentre danzo senza che nessun capisca: ho sognato così tante volte quegli occhi che non possono essere reali: sono solo altri castelli mentali. È così complicato fregarsene. Non curarsene dei confini rossi tra i peli, che fanno da sbarre al carcere. I rapidi battiti sono solo pelle sfregiata per farsi scorgere. E dire, che sono “colui a cui non importò abbastanza”. I riferimenti alla mia vita è roba passata: ho troppo cuore anche solo per alimentarlo tutto. Solo per poi sentirmi defunto. Cerco ancora la mia Ossidiana. La attendo con ansia, per riassumerle tutto questo scrivere, nell’unica delle scatole che mi possa permettere: i baci costano meno delle lettere. 

 

È una vita che faccio così, ed ogni parola era contenuta in quell’esile gesto, portato da tutti all’estremo come premio, per un secondo vissuto in cielo a volare. Oh, un bacio. Solo questo, ci può salvare.

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