Addio Scrittura-La mia Eredità - Riccardo Mantovani

Cosa succede quando qualcosa si conclude ? Dove vanno le credenze ? Le passioni e i sentimenti ? Mi sto rendendo conto che con un’inesorabile lentezza, il tempo non permette proroghe: la sua clemenza è contenuta solo nella falsa infinità dei secondi piegati dalle nostre emozioni. Un altalenarsi di “eternità più uno”, ed “eternità meno uno”, segnati dai momenti che condividiamo con le persone a noi più care. Mi ha sempre spaventato il mio non riuscire a vedermi più avanti di una settimana. Il mio futuro contenuto in una pellicola vuota, bruciata dalla continua rotazione della macchina da presa. Terrorizzante era fissare le macchie di plastica consumarsi a sparire, senza esser consapevole di ciò che avrebbe portato a tal finale; e spaventoso è ora lo scatto della lancetta che cade a tagliarmi le mani. Arrivò, così, il momento di compiere l’atto ultimo che mai ebbi neanche il coraggio  di immaginare. 

Smettere di scrivere, mi ha sempre gettato in un senso di annichilimento totale. Senza tutto questo, cosa sono ? Posso affermare con sincerità che la risposta è teatralmente scontata: nulla. Non sono niente senza la scrittura. Senza le parole piene di me. Dei miei occhi lucidi di tristezza e gioia. Stracolme del mio cuore debole di felicità e amore spezzato. Sono dell’idea che senza questa mia inclinazione, nessuno avrebbe mai trovato di che condividere con me: né i miei amici, né gli amanti e neanche le amanti. E’ triste da dire, ma nemmeno chi affermò d’aver provato la gentil pugnalata sibilante della freccia d’eros, si sarebbe convinta di ciò, se non avesse letto “La mia pensione”. E non biasimo: tutto quello che dirò in questi periodi, non è che una concretizzazione di ciò che già digitai tempo fa, chiuso in quella magione marittima. Ci sono arrivato, solo prima di quanto m’aspettassi: molto  prima. Ciò che però mi attanaglia di più, è l’invidiosa frustrazione che provo nel vedere tanto talento sprecato all’interno di questa rubrica. Quante volte, il mercoledì, portai i miei pensieri al perdono popolare, con la stessa sacralità con cui un credente  porta i propri peccati al cospetto di Dio, la domenica in chiesa. E quante volte, avrei voluto che qualcuno m’accompagnasse. Il senso di inettitudine e stupidità che provo nell’essere consapevole del potenziale degli altri scrittori, mi distrugge: maledetto sia il giorno in cui composi la mia prima poesia, ormai 8 anni fa. Ho letto, su questo spazio pendolante tra blog e giornale, splendidi sonetti su bambini spensierati e volpi fuggenti; racconti d’amore fatti d’astronauti, lacci slacciati che si fissano e uomini fifoni inermi sul ghiaccio dei propri sbagli; fughe di fantasia filtrate da tende bianco perla. Ho letto di divinità di cui non si dovrebbe sapere. Ho scorto tra le lettere  l’arte più pura che si possa perdere nei filtri dei nostri substrati realistici: la passione per le proprie idee. E fa incazzare come ora  a me non rimanga davvero null’altro se non il semplice “leggere” ciò che in realtà non viene più pubblicato. Mi sembra un tale spreco. Una tale mancanza di rispetto verso chi invece, non riesce più a prendere in mano una penna. Le mie mani, nella loro incomprensibile distanza da me, hanno smesso di seguire con medesima velocità  i miei pensieri e le mie riflessioni: intrappolato nella mia stessa pelle, il mio genio modesto - ma pieno di caparbietà - si ritrova incatenato ad un terremoto continuo, impossibilitato a redigere tre righe, dei cento testi che nel battito cardiaco di una zanzara gli si sono presentati davanti gli occhi, in meno di quattro ore. Detta come va detta: sono geloso. La donna della scrittura, con le sue forme setose, la pelle nevischia, il sorriso infantile, e i capelli nuvolosi filtranti quei pochi raggi di sole che penetrano la superficie del mio abisso, ha deciso di abbandonarmi al diluvio universale delle mie sbarre mentali. Il mondo prima grigio uniforme  s’è fatto di una colata di colori rivoltanti che non fan altro che seppellirmi sotto un' asfissia continua. Quindi cosa mi resta ? Incapace di dir qualcosa, non mi rimane che far quel che mi dice: e lasciare la biro. Però dire addio - mollare quel capo del filo che attraverso traumi e confessioni  legò due elementi - non ha senso senza aver tirato fuori tutto quanto di più sincero s’ha. Anche se si sarebbe voluto farlo con foglio e penna, ad ammirare i cancelloni di dolore che, invece, non scortano questo cursore maledetto - è alienante -. Mi vorrei rivolgere direttamente a chi scrive: che sia di questa scuola di matti, o che venga da fuori. Mi avete proprio fatto sudare quest’anno. Anche se distanziate nel tempo, ad ogni uscita estranea, sentivo la lontananza artistica tra me e voi. Non lo nego. Sono molto orgoglioso di questa cosa. Mi è sempre piaciuta la personale competizione esistente unicamente nella mia testa. Era catartica alla mia solitudine. Però, non limitatevi ad un' uscita l’anno sull’espressione cartacea, perché il blocco e gli impegni non vanno comunque oltre la necessità d’esprimersi. Se qualcuno ha qualcosa da dire, lo deve fare e basta. Soprattutto, se come voi, ha abilità. Ha talento. Mi piace questo testo, è teneramente egocentrico e narcisista. Sembra voglia elevarmi, ma è pura mestizia davanti ciò che ho deciso: mollo. Tiro su i miei fogli e le mie penne. Metto tutto nel cassetto delle sigarette, coi ricordi materiali che non voglio vedere se non per star male, e parto. Sono arrivato alla conclusione che la vita è un percorso da compiere in un determinato lasso di tempo. Questo termine è singolare e universale. E preso così, questo dinamismo di elementi, non possiede un senso tangibile. Però, il flusso temporale  è relativo, e si piega su di noi. Un mese speso con una persona, può sembrare una settimana; e una settimana spesa da soli, può sembrare un anno. Tale dimensione fisica si restringe come un pezzo di carta nelle nostre mani. Si riduce e riallarga in base agli oggetti: per questo amo le margherite, soprattutto tra i tirabaci della scrittura. Un fiore del genere, appena colto, ci mette massimo mezz’ora ad appassire. Se va bene un’ora. E presa così, compie il suo tragitto tranquillamente. Però, se posta sull’orecchio di una bellezza decadente, di un sorriso crepato dal passato; la margherita correrà il suo tracciato, e noi cammineremo lentamente il nostro: per lei, che finirà presto, diverremo eterni. Vi dono questa eternità: finisco il mio testo. Nel tempo che leggerete, sarete immortali. Invulnerabili. Vorrei che sfruttaste questa occasione: ora che l’apatia tanto desiderata al Dio in cui non credo, è tornata come un' ex rancorosa a lambirmi dopo che l’altra m’ha mollato. Scrivete di come vi sentite, fatelo per me. Scrivete le cose più belle che abbiate mai scritto. Se non volete farlo per voi perché impossibilitati a vederne il senso, mettetevi lì per tutti coloro che provano il mondo senza saperlo mostrare, e che aspettano solo una canzone nuova per sentirsi compresi da qualcuno che non sia un falso interprete. E’ la mia eredità: molto più di quanto sia stato in grado di dare a me stesso. Tempo - non me sono mai dato, e sono giunto a non averne più -. E’ scomodo avere periodi del genere tra la chioma; ma forse ne vale la pena. Ormai rubo frasi e le rielaboro: ho toccato con mano il fango putrido. Sono io quell’uomo steso sulla neve, e capisco perché il whiskey sia l’alcolico degli insensibili: ogni papilla, ogni nervo - tra labbra e lingua - viene incenerito, a dar un minimo senso di presenza terrena. Come chi fuma da solo, “tinge il proprio respiro per sapere s’è ancora vivo”; chi beve Jack, o Talisker, o qualunque altra marca sia concessa in un bar della zona industriale, lo fa per sentire il calore nel petto, che magari non sapeva neanche di poter provare. A volte l’abitudine ci impedisce di andare oltre il semplice velo traslucido che ci viene posto davanti. Ho camminato per troppo tempo sotto l’acqua, e ho sempre avuto freddo, sia chiaro. Sempre però, rifiutai questo telo atarassico per asciugarmi. Ora però, che nessuno guarda, che non ho più reali motivi per cercare un lampione sotto cui ripararmi a tingere con la penna gelida, un foglio spesso sei e grande un sesto; non vedo perché non abbandonarsi ad esso. La mia eredità è questa casa. Vi lascio le chiavi sotto lo zerbino. In cucina c’è ancora una bottiglia di vino bianco. In camera mia, sul letto, qualche felpa importante che non ho avuto il coraggio di separare da quel luogo. La mattina potrete ancora vedere quei due innamorati da “bigliettini di scuola” parlare di provvidenza ed alieni. Non disturbate i bambini: riveleranno la verità ai nuovi arrivati. Mi aspetto di leggere cose belle e brutte, ma comunque sincere. 


Una vita senza di te: chi se lo sarebbe mai aspettavo mentre ti urlavo in faccia il mio odio, dicendoti quanto t’amassi. Però, è questa, la mia eredità. 


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